sabato 29 giugno 2019

QUANDO UN MINCHIA DI MARE TROVA IL PROPRIO SÉ


   Un romanzo di formazione è sempre qualcosa di unico nella vita, nella storia di uno scrittore. A noi è molto piaciuto “Minchia di mare” di Arturo Belluardo, Elliot Edizioni 2017. I romanzi di formazione lasciano tracce, spargono semi, fanno tornare alla luce imprinting in leggero o totale oblio nel lettore.
   I temi che affronta il libro seguono linee e chiavi di lettura particolari, ma appena ci si immerge dentro diventano familiari e la memoria cuce le varie sezioni/capitoletti in maniera piacevole e con i giusti raccordi. Il linguaggio segue un percorso suo, una sorta di archeologia linguistica, come ha avuto modo di definirla lo stesso autore, che fa del linguaggio dialettale parlato la cifra principe di tutto il romanzo. L’abilità con le quali Belluardo usa più di una impronta linguistica rende la sua scrittura ancora più accattivante, forte, a tratti profonda. 
   Davide è un ragazzo che vive la condizione tipica giovanile/esistenziale di una città di provincia, a casa sua si parla solo in italiano, ma il dialetto gli è entrato nel sangue e nella testa giocando e frequentando i ragazzi del quartiere popolare dove abita e che frequenta tutti i giorni. È alla ricerca del proprio Sé per poter credere che ha le capacità di poter costruire progetti di vita lontani dall'ambiente familiare, scolastico, amicale dove si esaltano, a continua dismisura, le sue debolezze caratteriali, dove cercano di convincerlo  che non vale molto e che quelli che lo  attorniano stanno una spanna sopra.

     Valerio Vancheri e Arturo Belluardo alla libreria Gabò per la presentazione del libro nel marzo 2017
   
   Il padre di Davide Buscemi è un comunista, senza Rolex, in realtà vive la dimensione ideologica a modo suo, a suo uso e consumo. Legge L’Unità, frequenta la sezione del PC, è insegnante nello stesso Liceo Classico Gargallo di Siracusa frequentato dal figlio Davide. I protagonisti di questo romanzo sono i componenti del resto della famiglia, Ianu e sua mamma Sara. Benito, Benni Buscemi, il padre, è il dominus assoluto, presuntuoso e violento, alza pesantemente le mani su tutta la famiglia, considera il figlio più grande Davide una minchia di mare, “minchia e mare”, un modo di dire siracusano, per denominare un’oloturia,  un animaletto marino, senza spina dorsale. Davide Buscemi, pur in mezzo alle sue fragilità esistenziali cercava di fortificare le sue certezze che poi gli hanno consentito di trovare la “sua strada”.

  I grandi avvenimenti internazionali e nazionali che hanno fatto storia, come l’allunaggio della Apollo 11, la strage di Piazza Fontana, la morte violenta di Pier Paolo Pasolini, il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro,  il teatro di Eduardo, i grandi film come Fuga per la vittoria, il Dottor Zivago, i concerti dei Talking Heads, la musica di Lou Reed, i grandi successi musicali, in tv, di Raffaella Carrà, le feste patronali, la vita dell’oratorio frequentato da Davide, sono filtrati dai passi, anche colti, del dire e non sono mai fuori posto.
   Alcuni momenti narrativi hanno lasciato in noi un segno. Ne vogliamo citare qualcuno. Un paio, nella seconda parte, nel capitolo “La morte del Calippo”, il suo motorino vecchio e scassato regalatogli dalla nonna.
   Il primo è legato ad un momento tragicomico, quando Rosa, di due anni più piccola di Davide, la sorellastra, figlia di suo padre viene portata a casa per unirsi alla famiglia.  La mamma di Rosa è la prostituta Li Puma Carmela. Per un periodo il professore Buscemi ha convissuto con lei. Dopo la morte della prostituta i Carabinieri lo obbligano a prendersi in carico la figlia. 
   "Mi giro verso mia madre. Ma mia mamma non c’era più. Dei conati strozzati rimbalzavano n’arreri la porta del bagno…….“La sputazzata mi era partita quasi senza volerlo,  uno scracco  pieno e tondo, con delle remature verdastre che aveva già pigghiato Rosa in piena faccia”.
Il secondo momento, ancora dentro questo capitolo, è quando  mamma Sara, il giorno dopo, disperata per l’umiliazione subita dall'imperio del marito, va a scuola, prende il motore del figlio prima che lui esca e appoggiandosi, china sul manubrio piange, singhiozza, tornando verso casa, sul marciapiede del Lungomare di Levante spazzato dai cavalloni che, frangendosi sulla barriera di massi, imbiancano la strada con la schiuma e le inzuppano i vestiti ed i capelli. Davide raggiunge la madre, la stringe forte a sé. 
   “Pareva un pupo a cui avessero tagliato i fili, Bradamante sconfitta da Rodomonte. Piangeva talmente tanto che non distinguevo più le sue lacrime dagli sgricci dei cavalloni”. “Tu te ne devi andare, mà, Te ne devi scappare”.
   E poi ancora nel capitolo “Alle spalle di Minosse”, nome con il quale spesso Davide apostrofa il padre.  La scena si svolge a casa del nonno Davide, il padre del padre, per la cena di Natale. C’è qualche piccolo trambusto a tavola.
“Davide, è per te”.
“Pimmìa, zia? Sicura sei? Ma chi è?”
“E che ne sacciu? Voce di fimmina è”.
“Eh, il nostro Davide grande si fece. Le fimmine lo cercano pure per Natale” ridacchiò mio zio il questore.
“Buttai il tovagliolo sul piatto e corsi in corridoio. Rosa doveva essere.
“Davide…Buon Natale, Davide”:
La bachelite niura della cornetta mi si raggelò sull’auricchia, il cuore mi acchianò in alto e poi mi precipitò nelle scarpe.
“Mamma? Sei tu mamma?”.
“Davi….”
I peli russi di una manazza piombarono sui pulsantini bianchi della forcella, interrompendo la comunicazione!.
Nelle cavità oculari di mio padre s'affocavano due braci, gli occhi di Minosse”.

Ce ne sono tanti altri, ma ci fermiamo qui e rinviamo, naturalmente, alla lettura del libro.




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          Arturo Belluardo al solarium Nettuno a Siracusa per la presentazione di Calafiore

   Le due foto, la prima del 2017 e questa sopra, di qualche giorno fa, ci danno l'idea giusta del lavoro dell'autore sul suo corpo a dispetto di dover ammettere che "chi perde peso lo perde solo in apparenza perchè si resta sempre grassi dentro". Noi crediamo che questo lavorio abbia prodotto benefici effetti e ci apprestiamo ad approfondirlo leggendo Calafiore.  

    
Salvatore Spallina



   *Arturo Belluardo(1962) è nato e cresciuto a Siracusa, ha lasciato la città a diciannove anni, oggi vive a Roma e lavora alla Direzione Crediti del Banco Popolare. Ha alle spalle dei lavori di scrittura che l’hanno posto all'attenzione del pubblico dei lettori e degli amanti del teatro, ad esempio, con Scatola a sorpresa portato in  scena al Teatro Biondo di Palermo, ancora a Palermo è stato rappresentato il monologo La volta che mio padre m’imparò a volare. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati, Il ballo del debuttante  è stato segnalato al premio Premio Calvino 2016.
Minchia di Mare del 2017 è il suo libro d’esordio. Calafiore è l’ultimo lavoro di aprile 2019.




giovedì 13 giugno 2019

BAMBINI "SOLI" CON L’INCUBO DI DIVENTARE CIECHI - UN MODO STRANO E VIOLENTO DI VOLER BENE ED ESSERE ALTRUISTI


   
   Al “Cine-Teatro Aurora”, a Belvedere di Siracusa, alcuni giorni fa, è andato in scena uno spettacolo tratto dal libro  “I bambini della Croce Bianca – Racconto da una cronaca del 1960” di Carmelo Miduri – Lombardi Editori, 2007.
   


   Una storia vera e triste che fa i conti con il duro mondo degli adulti. Il racconto scenico si svolge nell’arco di un anno, a cavallo del 1960-61. L’esperienza diretta, vissuta da tanti bambini in età scolare, anche in altre parti della Sicilia, nella  identica  realtà descritta nel racconto, si allarga ad un arco di anni che vanno dal 1955-1972, anno nel quale la struttura è stata chiusa.


                                               Il Tracomatosario di Bivona

Un gruppo di bambini ospiti del Tracomatosario

   Il racconto si svolge dentro il  tracomatosario di Bivona, un luogo, una struttura che a partire dalla metà degli anni ’50, del secondo dopoguerra, ospitò migliaia di bambini affetti dal tracoma. Questa era una malattia infettiva che colpisce gli occhi, soprattutto dei bambini, più dannosa di una congiuntivite, perché poteva colpire anche la cornea. La causa dell’infezione era dovuta ad un batterio che si poteva trasmettere con il contatto da mani infette, da indumenti contaminati e da insetti. Se non veniva trattata poteva portare alla cecità. Nella struttura bambine e bambini venivano curati, sfamati ed obbligati alla frequenza di una classe elementare in base all'età ed alla classe frequentata fino al momento dell’ingresso nella struttura.
    Nei suoi tre piani, era molto grande e caratterizzata, all'ingresso, dalla bandiera italiana (che Gino, il protagonista nel racconto e nella pièce teatrale,  non aveva mai visto prima di allora) e da un grosso scudo rosso con una croce bianca in mezzo. Questa imponenza, per tanti bambini che vivevano in piccoli paesi, e il grande scudo rosso con in mezzo una croce bianca si caratterizzarono, insieme alla triste esperienza vissuta, come i segni distintivi di quel posto. Inoltre la presenza, durante la messa domenicale, di persone anziane che indossavano un mantello con lo stesso stemma (Ordine dei Cavalieri di Malta) rafforzerà in loro memorie difficili da dimenticare.
   Dentro il tracomatosario vigeva una disciplina di tipo militare, con orari rigidi da osservare. Vi erano grandi camerate, quella del dormitorio era inframezzata da un muretto con il vetro,  serviva a separare un certo numero di lettini di alluminio con una copertina con la croce bianca, con accanto un piccolo comodino. Le guardiane/custodi dormivano nelle camerate loro assegnate e controllavano anche i bisbigli. 

                                      Il Tracomatosario oggi in abbandono

   Per i tanti dettagli del racconto di Miduri, rinviamo alla interessante lettura del libro. Qui vi diciamo subito che a partire dal 1960, in Sicilia la malattia era stata quasi debellata e i bambini dentro la struttura ormai venivano inseriti per ben altri motivi. I più importanti erano legati al fatto che molti genitori, a volte entrambi, erano costretti ad emigrare, che le famiglie in disagiate condizioni economiche venissero aiutate a sfamare qualche bocca, a volte per reali problemi di salute, altre. per sottrarre qualche minore al clima violento che ci poteva essere in famiglia, ma anche per tenere al sicuro qualche bambino di qualche affiliato alla mafia (questo passaggio sulla mafia è stato inserito dall'autore per dare vivacità ed interesse al racconto).
   I bambini attraverso particolari canali e con una certificazione medica falsa, compiacente, fatta a fin di bene, venivano accompagnati nella struttura e vi restavano fino al termine del ciclo scolastico delle elementari. T1,T2, T3 erano le espressioni, gli strani acronimi che i bambini impararono subito. Il tracoma di tipo 1 era il meno grave e la stragrande maggioranza di bambine e bambini ne erano “affetti”. La “cura” consisteva nell'applicazione, due volte al giorno, di una pomata antibiotica. Da un tubettino, con un gesto rapido dell’infermiera, una  piccola quantità veniva inserita nell'occhio. L’immediato sapore acre in gola e le rassicuranti parole “ti farà bene” dette a ciascun bambino facevano il paio con le terribili domande che attraversavano le loro menti.
   Perché sono qui? Perché mi è stata tenuta nascosta la malattia agli occhi? Diventerò cieco? La mia famiglia mi ha abbandonato? Domande senza risposte. Il pianto, lo sconforto, gli incubi  si accompagnarono al senso solitudine ed abbandono in tante notti in quei lettini d’alluminio. La struttura è situata nella zona alta di Bivona, i primi freddi autunnali intensificarono quei brividi di freddo che il povero Gino provò il primo giorno dell’arrivo. Con l’inverno anche la neve, i fiocchi sbattevano sulle vetrate, Gino veniva da una città di mare e la sorpresa fu tanta che per un poco gli fece passare la sensazione dell’intensificarsi del freddo.

                                      
                                                      Cacciapetra (fionda)
   In qualche modo i bambini, pur soffrendo e subendo la prepotenza degli adulti, tendono a preservarsi e ad entrare in sintonia fra di loro. Gino lo fece, per pura empatia, con i suoi compagni di viaggio, Pippo e Bartolo. Poi al gruppetto si aggiunse Rosalba ed infine Totò, Totò Cardinale di due anni più grande. Nel gruppo man mano che passavano le settimane si intensificava il rapporto di affiatamento. A cementarlo bastarono piccole cose, come la capacità di Gino di “fabbricare” mazzi di carte siciliane, tagliate a misura, da un scatola di cartone e disegnate a mano nei minimi particolari (era in grado di disegnarne un mazzo completo in un giorno!!), usate come mezzo di baratto con altri piccoli giuochi, come il rocchetto di legno, dove si avvolge il filo da cucito, facendolo girare con elastico diventava il carro armato, o un pezzo di canna secca e cava, che per qualche metro girava come un elicottero, frutti del lavoro con  il coltellino con cui Totò intaglia i suoi giocattoli o  la cacciapietra/fionda che Gino aveva nascosto agli occhi dei custodi e che consegnò  a Rosalba. Lei la custodirà come un tesoro, in un posto segreto che solo lei conosceva. I componenti del gruppo furono i soli a scoprire un luogo segreto, nelle cantine del tracomatosario, conosciuto come la prigione. Questa altro non era che la caldaia dentro cui dimorava un cane cieco a guardia della stessa, ma nel passa parola dei bambini veniva identificata, con le relative minacce da parte del direttore, come il luogo buio e segreto dove si poteva essere rinchiusi se non si eseguivano i rigidi dettami che il personale imponeva in maniera a volte cruda e con certe dosi di sadismo. Rosalba in scena racconterà l’episodio della sua umiliazione pubblica. Per essersi buttata un poco di latte addosso, a colazione, una delle signorine/custodi le strappò la camicetta fino al ventre e la costrinse, nuda, a stare davanti a tutti su un banco per tutto il tempo della colazione. 

                                   
                                  Marta Amatore (Rosalba) e Sebastiano D'Ambrogio (Gino)  

   Di contro l’afflato amicale si rinsaldava sempre più, ora Gino, Pippo, Bartolo, Rosalba e Totò si percepivano  come una famiglia. Gino in effetti, in cuor suo, aveva inserito nella famiglia anche Maria, una delle signorine che lo aveva preso a ben volere quando lo aveva confortato qualche volta di notte sentendolo singhiozzare e spesso lo aveva portato con sé in paese, a Bivona, per delle commissioni. Qualche volta Gino le faceva compagnia anche quando Maria si incontrava con il suo fidanzato, un tenente dei Carabinieri. Sarà proprio il tenente, nell'ambito delle indagini a lui affidate a scoprire che Totò Cardinale in verità si chiama Salvatore Caruso ed era figlio di un mafioso che dovendo trasferirsi in America per motivi attinenti all'affiliazione credette opportuno affidare il figlio, dietro compenso, alle attenzioni del maestro dei bambini, per via di una lontana relazione parentale della moglie con quella famiglia, insomma lasciarlo in mani sicure. Il tenente alla fine delle indagini verrà a capo di tante cose, a partire dalle false certificazioni mediche dei bambini e fino ad avere la certezza che il bambino Totò era figlio del mafioso Francesco (don Ciccio) Caruso.  

  Carmelo Miduri dopo aver raccolto da conoscenti ed amici vari stimoli a che il suo racconto potesse diventare qualcos'altro contatta e poi incontra Enzo Firullo per vedere se era possibile  una trasposizione teatrale. Enzo, da uomo di teatro a tutto tondo, anche se il  genere che la sua compagnia ha portato e porta in scena è diverso,  crede, in forza della sua esperienza, che questo spettacolo  avrebbe ottenuto un positivo riscontro dal pubblico.
  A questo punto Carmelo Miduri pensa di mettersi al lavoro per scrivere il copione da rappresentare e si ricorda dei lavori e delle collaborazioni con Toi Bianca, dai programmi tv ai libri “Siracusa & Droga”  (Edizioni La Pira, 1987) ed “Un anno in quaranta e-mail” (Lombardi Editore 2005) ed alle tante condivisioni di altri progetti. I due amici scrivono il copione, Enzo Firullo lo adatta per la sua regia.   

   
  Noi abbiamo letto il racconto sia dopo la prima presentazione del libro, sia prima di assistere alla pièce teatrale. Alla luce del resoconto che, qui, abbiamo cercato di riassumere, i contenuti del libro, la CO.MI.CA. (COmmedia Musical Italiano Cabaret), la compagnia di teatro di Enzo Firullo, lo ha interpretato con tanta professionalità e con tutto l’amore per il teatro di cui è capace.
    La messinscena, nel susseguirsi del suo contenuto recitato,  si è intrecciata con la voce di Laura Valvo che esplicitava le sequenzialità della cronaca del tempo e, a tratti dalla voce narrante di Agnese Firullo che aveva la funzione di legare i momenti del racconto di Miduri. Ad intervalli durante la recita venivano proiettati brevissimi flash di una serie di filmati e foto degli anni ’60, ad esempio, tratti da “Le avventure di Rin tin tin”, che era la serie televisiva che i ragazzi potevano seguire ogni pomeriggio nel salone della tv. Fuori scena, in sala, appropriate sonorità musicali eseguite da Romualdo Trionfante, dei Cantunovu, hanno accompagnato momenti particolari della recita. Lo spettacolo si chiude con una canzone di Francesco Firullo (autore delle musiche) cantata da Agnese Firullo. Un plauso speciale vogliamo riservarlo ai due bambini  Marta Amatore (Rosalba) e Sebastiano D'Ambrogio (Gino)  che hanno recitato in maniera impeccabile. Un ringraziamento importante a Peppe Migliara per le foto.


    Aggiungiamo, a bella chiosa,  che una parte del prezzo del biglietto pagato da tutto il pubblico presente, in ogni ordine di posti, è andato in beneficenza all’UNICEF.

Salvatore Spallina